Stretta della Cassazione sugli appalti

20 febbraio 2024

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Da sempre, nel nostro ordinamento, il tema degli appalti e della somministrazione di lavoro è stato oggetto di attenzione da parte del legislatore in campo giuslavoristico. Non a caso, una delle prime leggi di diritto del lavoro ad affiancare la disciplina codicistica è stata la legge 1369/1960 la quale sanciva il divieto di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro.

La normativa, dopo essere rimasta sostanzialmente immutata per quasi 40 anni, ha registrato un certo dinamismo a partire dalla cosiddetta legge Treu 1997, con cui è stato introdotto il lavoro interinale, e dalla legge Biagi del 2003, che ha meglio disciplinato se e a quali condizioni vi può essere un disallineamento tra datore di lavoro formale e il beneficiario della prestazione lavorativa.

Sino a pochi anni fa, le conseguenze della illiceità di un appalto per l’impresa committente – al di fuori delle ipotesi di sfruttamento che configurano il reato di caporalato – sono sempre state di natura puramente economica e consistenti nel pagamento di sanzioni amministrative per mancato versamento dei contributi e mancata assunzione diretta del personale utilizzato nell’ambito dell’appalto simulato. Da qualche tempo, invece, il rispetto dei requisiti che legittimano il ricorso all’appalto è divenuto ancor più importante per effetto di due orientamenti giurisprudenziali fissati.

Il primo orientamento è emerso in tema di licenziamento. Secondo tale indirizzo, la Cassazione ha ritenuto che l’appaltante, in quanto datore di lavoro sostanziale in caso di appalto non genuino, non può avvalersi del licenziamento effettuato dall’appaltatore, datore di lavoro formale. Il licenziamento intimato dall’appaltatore simulato è inefficace e il rapporto di lavoro formalmente in corso con quest’ultimo si costituisce con il committente. Per giungere alla dichiarazione di inefficacia del licenziamento, la Corte suprema ricorre all’applicazione analogica della norma di interpretazione autentica prevista dall’articolo 80-bis del Dl 34/2020, la quale stabilisce che tra gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore (e quindi dall’appaltatore) nella costituzione o gestione del rapporto, che devono intendersi come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, non è compreso il licenziamento. Ciò in virtù della comune ratio di tutela del lavoratore coinvolto in fenomeni interpositori irregolari o simulati.

In virtù del secondo orientamento, la Cassazione penale ritiene che, in caso di appalto non genuino, l’appaltante che detrae l’Iva delle fatture spiccate nei suoi confronti dall’appaltatore commette reato di dichiarazione fraudolenta per operazioni soggettivamente inesistenti.

Nello specifico, l’utilizzo delle fatture emesse a fronte del contratto di appalto consente alle aziende utilizzatrici di detrarre i costi sostenuti e l’Iva indicata in fattura, creando così un credito di imposta che non sarebbe sorto se le parti avessero correttamente descritto il rapporto giuridico intercorso. Inoltre, vale la pena di considerare un ulteriore orientamento secondo cui il termine di decadenza biennale previsto per la responsabilità solidale dell’appaltante per i debiti contributivi dell’appaltatore non vale per l’Inps, che rimane soggetto ai termini di prescrizione ordinaria di cinque o dieci anni.

Fonte: IlSole24Ore


Per maggiori informazioni contattare Giovanni Balocchi responsabile dell’Ufficio Sindacale

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